giovedì 12 giugno 2008
DIABETE
Con il termine diabete si intende un insieme di alterazioni patologiche accomunate dall’iperglicemia, che a sua volta può dipendere dalla ridotta produzione insulina, dalla ridotta attività periferica dell‘insulina, dall‘eccessiva produzione di glucosio a livello epatico. Il diabete classicamente è distinto in due categorie diabete mellito di tipo 1 a patogenesi autoimmunitaria e diabete di tipo 2 caratterizzato da insulinoresistenza, alterato rilascio dell’insulina, eccessiva produzione di glucosio; solitamente la seconda forma è proceduta da alterata glicemia a digiuno (o alterata tolleranza glucidica). A queste due classi si associano altri tipi di diabete mellito come il MODY (diabete giovanile ad insorgenza nell’età adulta) e il diabete gestazionale.
La diagnosi del diabete può essere effettuata tramite il controllo della glicemia e della tolleranza glucidica in presenza dei classici sintomi clinici (poliuria, polidipsia e calo ponderale); nel soggetto
normale la glicemia a digiuno è inferiore ai 100mg/dl, una glicemia compresa tra 100-126mg/dl è definita come alterata glicemia a digiuno, infine un valore pari o superiore a 126 indica la presenza di patologia diabetica. L’alterata glicemia a digiuno può essere paragonata alla ridotta tolleranza glucidica (140-200mg/dl) e sono delle condizioni che predispongono allo sviluppo del diabete e delle patologie cardiache. Un utile metodo per confermare la diagnosi di diabete è il dosaggio dell’emoglobina glicosilata, che rispecchia la glicemia degli ultimi 3 mesi.
L’insulina è prodotta dalle cellule B del pancreas sottoforma di preproinsulina, questa molecola iniziale subisce due clivaggi successivi, nel primo è rimosso il segnale aminoterminale, nel secondo è rimossa una sequenza di 31 residui aminoacidi (peptide-C) con formazione dell’insulina, costituita da due catene alfa e beta tenute insieme da due ponti disolfuro; quindi
isulina e peptide-C sono inglobati nei granuli secretori e liberati dopo stimolazione.
Lo stimolo al rilascio dell’insulina è mediato dall’ingresso del glucosio nelle cellule beta pancreatiche tramite il trasportatore GLUT-2, quando la glicemia supera i 70mg/dl; in queste cellule il glucosio viene convertito in ATP che inibisce un canale del potassio con conseguente depolarizzazione della membrana ed apertura dei canali del Calcio che provocano la liberazione dell’insulina. Quest’ultima agisce a livello periferico sui recettori posti principalmente a livello del tessuto adiposo, del muscolo e del fegato provocando l’esposizione del trasportatore GLUT-4 sulla membrana di tale cellule permettendo l’utilizzo del glucosio da parte di questi tessuti. Inoltre l’interazione dell’insulina con il suo recettore favorisce la sintesi proteica, la lipogenesi e la gliconeogenesi epatica. Il diabete mellito di tipo 1 è risultato di effetti sinergici genetici, ambientali e immunologoci. Gli individui con suscettibilità genetica hanno un normale numero di cellule beta alla nascita, ma iniziano a perdere tali cellule in seguito ad un processo autoimmune, dovuto forse all’interazioni tra fattori ambientali come virus della rosolia o coxsackie virus con l’organismo predisposto (aplotipo HLA-DR3/DR4).
Il processo patogenetico iniziale prevede un accumulo di linfociti nelle cellule beta con lo sviluppo di un’insulite; dopo che tutte le cellule sono state distrutte il processo si arresta e non è più possibile ritrovare i marcker immunologici. Le molecole solitamente bersaglio del processo autoimmune sono: insulina, GAD, phogrin. Il diabete mellito di tipo 2 è caratterizzato dall’insulinaresistenza e dall’alterata secrezione di insulina ed eccessiva produzione epatica di glucosio. Nelle fasi precoci della patologia la tolleranza glucidica rimane nella norma, nonostante la resistenza insulinica, poiché le cellule beta attuano un compenso aumentandone il rilascio in circolo. Quando il limite del compenso è superato dall’ulteriore insulinoresistenza compare l’elevazione dei livelli glicemici nel periodo post prandiale. Molto spesso il diabete mellito di tipo 2 si trova associato ad obesità viscerale o addominale. Le complicanze del diabete possono essere suddivise in acute e croniche.
Le prime sono rappresentate dalla chetoacidosi diabetica (CAD) e dallo stato iperosmolare iperglicemico (SII), tipiche del paziente affetto da diabete mellito di tipo 1. La CAD si manifesta solitamente con: nausea, vomito, dolori addominali, respiro di kusmaull (profonda inspirazione, apnea, espirazione, apnea post espiratoria), glicosuria, ipotensione, tachicardia, letargia e depressione del sistema nervoso centrale. Nella SII la sintomatologia clinica è rappresentata da
poliuria, perdita di peso, confusione mentale sino al coma. Le complicanze Croniche possono essere suddivise in non vascolari e vascolari, e quest’ultime ulteriormente classificate in microvascolari (retinopatia, nefropatia, neuropatia) e macrovascolari (coronaropatie, ictus, infarto arti inferiori). Il trattamento del diabete mellito di tipo 1 si basa sull’uso di schemi differenti a base di insulina; il diabete di tipo 2 trova giovamento dalla terapia medica nutrizionale, dall’attività fisica, e dall’approccio farmacologico che si basa su ipoglicemizzanti orali( sulfaniluree, biguanidi, inibitori dell’alfa-glucosidi, tiazolinedioni).
lunedì 2 giugno 2008
INSUFFICIENZA VEMOSA E VENE VARICOSE
Per insufficienza venosa si intende una serie di disturbi caratterizzati da un difficoltoso ritorno al cuore. Negli arti inferiori vi sono due sistemi principali di vene, uno superficiale ed uno profondo. Quello superficiale è principalmente rappresentato dalla grande e dalla piccola safena e dai loro rami affluenti. Nel sistema profondo si individuano vasi di diametro sempre maggiore che confluiscono nella vena poplitea, e questa nella vena femorale. I due sistemi si trovano riuniti tramite rami che sono definiti perforanti, dotati di valvole che permettono il flusso di sangue dal distretto superficiale a quello profondo e si oppongono al reflusso. L’insufficienza venosa degli arti inferiori può essere distinta in due categorie:
- Varici primitive
- Varici secondarie
Le varici primitive sono dovute ad un lento e progressivo logoramento dei foglietti valvolari; in genere l’eziologia è valvolare e/o genetica. Le donne sono colpite con maggiore frequenza, anche se la differenza tra i sessi tende ad annullarsi dopo la sesta decade.
Le varici secondarie sono in genere successive alla trombosi del circolo venoso profondo, infatti, in queste situazioni il sangue deve defluire tutto tramite il circolo superficiale e ciò provoca sfaldamento dei piani valvolari con rigonfiamento delle vene superficiali, dolore nelle regioni prossimali, stasi e gonfiore soprattutto distale e serotino, le vene soggette ad ipertensione determinano delle tortuosità chiamate varici.
I principali sintomi sino: pesantezza, gonfiore agli arti inferiori, crampi notturni, cianosi, sensazione di bruciore a livello cutaneo, sensazione di formicolio, sensazione di piedi freddi.
La diagnosi è essenzialmente clinica(prova di Trendeleburg, test di Pertes) e vanno escluse patologie sistemiche che possono essere all’origine del disturbo (patologie renali, cardiache o epatiche); gli esami strumentali ausiliari sono: ecografia e ecocolordoppler.
Le possibili complicanze sono rappresentate dalle flebiti e flebotrombosi.
La terapia può essere sia medica che chirurgica. La terapia medica prevede l’uso di calze elasto-contentive, i farmaci non possono guarire la disfunzione valvolare, ma possono contrastare la sintomatologia. La terapia chirurgica può essere effettuata con tecnica endovasale che prevede l’uso di una fibra ottica che agisce fisicamente(laser= calore) sulla parete del vaso determinandone l’obliterazione; controindicazione assoluta è la pregressa terapia sclerosante o l’aver sofferto di tromboflebite. La tecnica tradizionale prevede l’asportazione della grande safena e la rimozione dei gavaccioli varicosi.
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